Come migliorare la comunicazione col proprio bambino? 5 domande a Stefano Denna
Come possiamo ottenere l’attenzione del nostro bambino e guidarlo affinché faccia ciò che è meglio senza danneggiare la propria autostima, anzi aiutandolo ad esprimere il massimo da sé stessi? Lo abbiamo chiesto a Stefano Denna, coach e trainer che si occupa da oltre 20 anni della questione, ha pubblicato di recente un libro su questo tema spiegando strategie educative pratiche ed efficaci, insegnando ad applicarle in concreto nelle relazioni genitori-figli.
Ciao Stefano e benvenuto su motricitaovale.it! Ti seguiamo da tempo e siamo molto affascinati dalle tematiche del tuo recente libro “Genitori Coach” edito da Mondadori. Nel tuo manuale – perché si tratta di un vero e proprio manuale interattivo – aiuti i genitori a capire come guidare i propri figli ed aiutarli ad esprimere al massimo il loro potenziale. Tra i punti in comune con la nostra attività di motricità di base per bambini da 2 a 7 anni col pallone ovale emerge la questione legata all’equilibrio tra le regole da rispettare e la gioiosa energia tipica dei più piccoli. Cosa suggeriresti ai genitori di un bimbo così piccolo, in un’epoca in cui forse non sappiamo più come marcare questi confini?
Ancor più che parlare di regole andrebbero fissati degli obiettivi comuni, facendo un patto tra persone. Se le imposizioni vengono vissute soltanto in quanto tali, è come dire che c’è qualcuno che da un ordine ed un altro che le esegue – o che si ribella. Come genitori, o come allenatori, se fissiamo regole fini a sé stesse che non portano a nessun risultato probabilmente c’è da rivedere le regole. Perché invece ci siano regole utili per tutti – e non semplicemente regole che vanno rispettate perché “sono state sempre li” – è molto meglio partire dallo scopo.
Mi si potrà obiettare che sembra assurdo che si debba fare un patto con dei bambini piccoli, loro in realtà capiscono benissimo il motivo per il quale devono ad esempio tenere pulita la camera o eseguire un esercizio. Meglio dunque partire dal contrario, non spiegare la regola ma partire da come vogliamo che sia la casa, la famiglia, la squadra, condividere la direzione che vogliamo prendere – e il perché vogliamo prenderla – e da lì chiarire che se vogliamo raggiungere questa cosa è importante che ci siano delle regole. Se non c’è un patto, i problemi verranno fuori lo stesso. Molte volte, sia negli spogliatoi che in famiglia si preferisce avere un “Si” falso piuttosto che risolvere e gestire una questione che poi può creare problemi più grossi dopo. Il concetto di squadra si identifica sempre più con la collaborazione e sempre meno con le imposizioni dall’alto.
C’è un passaggio del tuo libro in cui sottolinei l’importanza di distinguere la persona dai comportamenti, del non far sentire il nostro bimbo sbagliato come persona solo perché sta avendo dei comportamenti che non approviamo. Tante volte invece siamo proprio noi genitori i maggiori responsabili delle “etichette” che appiccichiamo addosso ai nostri figli. Se si comportano come noi non vorremmo, spesso puntiamo l’indice sulla persona e non sul suo comportamento, etichettando la persona con uno sbrigativo e dannoso “Sei sciocco” invece che indicare come sciocco il comportamento. Questo è ancor più importante tra i 2 e i 5-7 anni, quando il bimbo sta gettando le basi del sé e questo ha un influsso fondamentale nella relazione affettiva con i propri genitori. Come sarebbe meglio comportarsi per correggere i comportamenti senza far danni sulla persona e sulla sua autostima?
Se iniziamo a mettere delle etichette ai bambini, col tempo finiranno per credere a quelle etichette. Per fare un esempio, ci sono degli adulti che non sono stonati ma magari sin da piccoli gli hanno messo l’etichetta “sei stonato”. Quella etichetta ha impedito loro di sviluppare quel talento o semplicemente di sentirsi a proprio agio cantando. Lo stesso succede a scuola, dove chi ha scarsi risultati viene spesso etichettato come “somaro”. La mancanza di risultato dipende o dal fatto che non hai studiato o dal fatto che hai studiato con scarso metodo, quindi se pongo l’attenzione sulla quantità di studio o sulla qualità di studio è diverso che metterla sull’identità di incapace o di somaro.
Nello sport succede spesso che si venga etichettati in maniera anche scherzosa o goliardica. Poi però quella etichetta diventa molto spesso il destino di quella persona. Quando etichettiamo una persona è come se stessimo parlando di qualcosa di impresso nel suo carattere, nel suo Dna, di qualcosa di ereditario quando invece la genetica non c’entra niente. Un genitore dovrebbe porre l’attenzione sul comportamento del bambino, questo può migliorare il comportamento stesso. Lo scopo di un allenatore, di un educatore o di un genitore è che i figli diano il meglio di sé e non che semplicemente confermino un’etichetta, che poi non è altro che il nostro giudizio su di loro.
Un’altra cosa molto utile che un genitore può apprendere dal tuo manuale è che non tutti i bambini reagiscono ugualmente agli “stili di guida” che utilizziamo con loro, e che se impariamo a riconoscere i nostri stili e i loro differenti modi di reagire possiamo ottenere una qualità molto più alta di comunicazione con loro. Ci dai qualche indicazione pratica?
Parto da un esempio utilizzando il ciclismo: esistono il gregario e lo sprinter. Due persone con due personalità diverse che sono guidate da cose diverse. Puoi dare lo stesso input ad un bambino più motivato dal risultato, che è lo sprinter, e al bambino più metodico, riflessivo, che sta più dietro le quinte e vedrai che non otterrai lo stesso esito. Dunque lo stesso consiglio dato a due persone con due focus opposti non potrà funzionare.
Altre volte si sentono genitori o allenatori esclamare: “Questa cosa funziona con te ma non con tuo fratello!”. Funziona con Pino ma non con Gino, allora è Pino o Gino quello sbagliato, o il modo di comunicare che io ho avuto con loro? Bisogna capire la direzione, l’attitudine che può avere il bambino, e comprendere che non possiamo avere un mondo di sprinter e neanche un mondo di gregari. Sono tutti utili alla squadra, l’importante è comunicare per quello che è il loro linguaggio.
Più in generale, quali sono i classici errori di un genitore “alle prime armi”?
Nel libro ne elenco nove. Uno di quelli più gravi secondo me è il confondere l’ansia col voler bene. Ci sono genitori che sono assai ansiosi e pensano che quello significhi “voler bene” ad un figlio. Ho conosciuto anche allenatori che vanno in ansia da prestazione e confondono quella loro insicurezza col fatto che ci tengono a quell’evento. Sono due cose completamente diverse. Se ci tengo ad una persona o a un figlio o a un evento, l’ansia e la preoccupazione non c’entrano completamente niente. Quante volte l’ansioso “se la vende” come uno che “ci tiene”. In realtà la solidità, la sicurezza, la serenità nell’affrontare la vita come un evento sportivo sono fondamentali per un coach come per un genitore.
Un altro errore è anche il confronto. Non esistendo due esseri umani uguali su questa Terra, è altrettanto inutile confrontare una persona con un’altra. È come paragonare l’automobile con la bicicletta. Il vero confronto che va fatto per un essere umano è quello rispetto alle proprie potenzialità. Un confronto tra dove eri ieri, rispetto a quanto sei cresciuto oggi, e cosa hai da fare per diventare la persona che vuoi diventare domani.
La reattività è un altro punto dolente: spesso il genitore o l’allenatore comunicano in maniera reattiva, ovvero solo se stimolati da un input esterno, allora è li a dare le sue indicazioni e non lo fa creando invece la situazione. Molte volte quando lo stimolo del ragazzo è qualcosa che ti fa arrabbiare allora scatti. Il coach o il genitore non dovrebbero mai arrabbiarsi “reattivamente” ma rimanere nella calma per capire cosa serve, perché la reattività, la rabbia, la tensione non servono mai, così come la preoccupazione di cui si parlava prima, anche quella è una forma di reattività.
Anche il non credere ai sogni dei propri bambini, è un altro errore grande. Se non credo prima io allenatore o genitore al sogno del mio bambino e ad una possibilità che ce la possa fare ho già fallito in partenza, rischio di allenare o di far crescere soltanto le persone che io penso che possano crescere quando invece la vita spesso ci da delle sorprese.
Quanti figli hanno realizzato sogni ai quali le persone intorno a loro non credevano, quanti figli di famiglie molto umili, con scarsi esempi di realizzazione hanno costruito cose importanti, probabilmente perché in quel sogno hanno creduto e hanno avuto persone accanto che hanno innaffiato il seme di quel sogno.
Più in generale, dai 2 ai 7 anni non c’è da essere dei fenomeni di allenatori o di genitori, c’è piuttosto da fare meno danni possibili. Spesso quello che viene fatto ad un bambino – anche se in buona fede – a volte non basta. C’è proprio da stare attenti a non fare errori perché ogni azione, gesto o parola crea poi delle conseguenze che possono essere non quelle desiderate o non quelle più utili per il bambino.
Come si diventa “Genitore Coach” per motivare al meglio il proprio figlio ad
utilizzare tutte le risorse interne?
È una scelta. Non basta aver messo al mondo dei figli per essere un genitore, così come non basta l’aver acquistato un’automobile per essere un pilota o un pianoforte per essere un musicista. L’avere dei figli non fa automaticamente di un essere umano un genitore, così come l’avere dei ragazzini davanti a sé non fa di un essere umano un allenatore, che molto spesso può essere bravissimo ma altre volte soddisfa i suoi bisogni in un campetto sportivo piuttosto che pensare a realizzarsi nella vita vera.
Il punto è che posso scegliere di diventare l’allenatore di mio figlio, posso scegliere di essere un coach che segue questa linea, tutto nasce da scelte quindi molto spesso l’andare di corsa, il pensare ai doveri, ai compiti, non ci lascia spazio per porre l’attenzione sul concetto di azione e reazione, quindi su qual è la mia azione oggi che creerà poi nel futuro una conseguenza utile o dannosa a mio figlio. Chi vuol essere l’allenatore dei propri figli è perché tiene al risultato e a che i figli si realizzino e vuol essere uno strumento in questo. Il problema che c’è in tutto questo è che è praticamente impossibile diventare il coach dei propri figli se non si è anche un pò il coach di sé stessi.
È questa la cosa più frustrante per tante persone, perché più spesso tutti cerchiamo la pillola magica, la medicina che ci faccia sparire il mal di testa e così tutti vorremmo il consiglio o la lezione che serva ad evitare i problemi con i figli quando in realtà la questione sta nel senso di responsabilità. È difficile diventare genitori coach se prima non si è coach di sé stessi. Quindi se non si inizia a considerare la propria vita a tutto tondo e saper guidare sé stessi nel lavoro, nelle finanze, nella propria vita sentimentale, più nella direzione dei desideri che in quella dei bisogni o delle necessità o di ciò che si è costretti a fare.
È qualcosa in controtendenza e di contro-intuitivo rispetto a tutto il resto, perché spesso si trova più comodo argomentare cose del tipo: “Ma cosa devo fare io, che non c’è il lavoro, che non ci sono i soldi” e non si pensa che possiamo essere noi a creare le condizioni perché tutto questo non avvenga. Con queste premesse è chiaro che chi è dentro questo gioco difficilmente può essere il coach dei propri figli. Il classico genitore che si lamenta – o che fa il furbo – difficilmente genera dei figli che come obiettivo nella vita hanno quello di realizzarsi e di essere felici.
Quindi essere genitori coach non è per tutti, è molto più facile lamentarsi essere solo strumenti della politica piuttosto che delle multinazionali o altro.
Grazie per la disponibilità Stefano, ti aspettiamo come coach speciale ad una delle nostre sessioni di motricità col pallone ovale con Rugbytots!
Grazie a voi e a presto!
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